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Clinto, Crinto, Clinton… vini proibiti

Clinto, crinto, clinton… vini proibiti

Clinto: nel territorio del Prosecco, esisteva un altro “vino”, di fatto proibito in Italia già dal 1931 ma sopravvissuto ai divieti, agli stravolgimenti di due guerre e giunto ai giorni nostri in quantità residuali, prodotte in casa per autoconsumo. Da amanti della biodiversità, della cultura rurale e delle tradizioni storiche del territorio dell’Alta Marca, ci è sembrato utile pubblicare questa  indagine. È anche un modo per richiamare il nostro passato e le nostre origini, senza farsi condizionare, senza rinnegarle.

Il Clinton è un tipo di vite spontanea, quello che si definisce un “ibrido naturale”, che fu “piantata” per la prima volta nel 1821 da Hugh White a College Hill (NY). Si tratta di una vite selvatica che risulta sorprendentemente refrattaria alla fillossera, gravissima malattia della vite. L’arrivo in Europa delle prime barbatelle di Clinton dalle nostre parti, è collocabile tra il 1850 e il 1860, in seguito alla disastrosa epidemia di fillossera che sconvolse il Nord Italia e altri paesi d’Europa ed in particolare la Francia.

Molti anni dopo l’arrivo delle prime barbatelle, a cavallo degli anni 50, la diffusione degli ibridi produttori diretti resistenti alla fillossera risultava particolarmente elevata nel Nord dell’Italia, in talune regioni della Francia (Midì in particolare), in Germania, Austria ed in qualche altro paese dell’Oriente europeo.

Oltre alla filossera un’altra piaga che decimava i raccolti soprattutto in pianura, erano le gelate; e c’è da dire anche che sempre in pianura, a causa della superiore umidità, la vite “nostrana” richiedeva comunque più cure e più trattamenti. La vite “americana” e le varianti di clinton e fragola invece, resistono bene anche alle basse temperature e al gelo e sono anche facilmente adattabili al suolo e al clima. Per proteggere l’uva clinton bastavano 3-4 pompate di solfato di verderame + calce (eventualmente un po’ di polvere di zolfo sul grappolo ancora verde, umido di rugiada) e l’uva andava a maturazione senza grossi problemi.

Nelle zone del Veneto orientale, prese in considerazione per la mia indagine sul campo, sembra certo che l’utilizzo dei primi ibridi di Clinto (così viene chiamata la variante veneta) frutto di incroci importati dalla Francia, risalga alla fine dell’800.

I contadini sostenevano che la crociata denigratoria contro il Clinto non fosse conseguenza soltanto della regolamentazione europea che non contempla il vitigno tra le “vitis vinifere”(Regolamento CE 479/2008) ma fosse anche pilotata dall’industria chimica che vede in esso un rischio per il mercato degli additivi chimici; quest’ultimi ai giorni nostri nell’occhio del ciclone sull’onda dell’aumentata sensibilità dell’opinione pubblica ai temi ambientali e salutistici.

77vintido | Vigne di Clinto-n
Vigne di Clinto

Il Clinto-n: una specie a rischio estinzione

Clinto (o Crinto): con grappolo compatto, pieno e tozzo, con acini medi, buccia piuttosto grossa e nera, uva non molto profumata, poco zuccherina. Il Clinto potrebbe essere frutto di un incrocio tra Clinton e varietà europee, per migliorare le qualità vinifere (Labrusca – Riparia – Vinifera).

Clinton (o Crinton): questo risulta essere con grappolo più allungato, acini radi e abbastanza grossi e rotondi, con presenza di qualche acino verde, buccia molto grossa e scura, profumo vagamente di fragola e frutti di bosco, poco zucchero.

In entrambi i casi, il vino che se ne ricava è in genere basso di grado, dagli 8 ai 10 gradi alcolici, che sono la norma; in rari casi eccezionali esso può raggiungere anche i 12 gradi e oltre. Il Clinto è di un incredibile colore rosso scuro, tendente al viola; al palato si presenta sgarbato, con gusto deciso, prevalenza di toni aspri e retrogusto leggermente amarognolo; con profumo che può essere intenso ma poco persistente e comunque inconfondibile; con sentori di fragola, frutti di bosco e prugna spesso accompagnati da quello che viene definito aroma “selvatico”, foxy per gli anglosassoni.

Quello di una volta lasciava una traccia densa nelle bottiglie e sui bicchieri, ed anche per questo, risultava gradevole berlo nella scodella con l’interno in ceramica bianca, come si usa ancora oggi in qualche rara occasione rituale.

È molto probabile che l’usanza della scodella fosse più una conseguenza dell’economia rurale che un espediente gastronomico. Come dicono i nostri vecchi, fino a 70-80 anni fa il bicchiere di vetro, nelle case contadine, era un lusso che pochi si potevano permettere e le scodelle in terra smaltata, invece, potevano anche essere prodotte in casa utilizzando l’argilla delle campagne.

Attualmente I vini Clinto e Clinton (in particolare il taglio), sono diffusi soprattutto in Veneto, in provincia di Vicenza (Gambellara – Villaverla) e nella Marca trevigiana.
Ma se dovessimo identificare una zona “a denominazione d’origine” per il Clinto “superiore”, quella con la maggiore tradizione ed i migliori vini, questa dovrebbe essere individuata nel Quartier del Piave tra i comuni di Sernaglia della Battaglia (incluse le frazioni ed in particolare Fontigo) e di Moriago (comprendente la frazione di Mosnigo). Volendo si potrebbe estendere a Vidor, Farra di Soligo, Pieve di Soligo, Refrontolo, Follina.
Il Clinto non è solo vino, da bere o servire con le fragole, ma la grappa che se ne ricava è straordinariamente vellutata, densa, profumata, con prevalenza di fruttato di prugna e un finale di miele d’acacia in bocca. Sarà che il vino toglie alla grappa e tanto più un vino è sgarbato, tanto più la grappa che se ne ricava viene fuori armonica (ndr). È una questione di buccia spessa, di elementi aromatici, ma anche di vinaccia che tende ad essere meno sfruttata, da parte di chi vinifica.

Persecuzione o Valorizzazione?

Come per altri vini ricavati da vitigni ibridi americani ed euro americani (frutto di incroci tra vitis labrusca e vitis riparia), una volta vinificato con le tecniche tradizionali il Clinto/Clinton, da luogo ad un prodotto sospettato in passato di contenere metanolo, che come sappiamo agisce negativamente sul sistema nervoso. Si sospettava inoltre, che particolari antociani (pigmenti rossi), presenti nella buccia, potessero contribuire a sviluppare acidi cianidrici, di una certa tossicità. Sembrava peraltro, ma questo risultava l’unico dato positivo, che l’uva clinto contenesse molto potassio.

Saranno state poi vere queste supposizioni?… o non è che ci troviamo di fronte a una crociata denigratoria da parte dei garantisti dell’enologia, che portano avanti un’idea di vini omologati su standard internazionali, pieni di tannini da barriques e lontani dalle  tradizioni e dalla storia, sia quella povera e rurale, che quella di tutti i diversi “stati politico-gastronomici” di questo nostro Paese, così ricco di bio/psico-diversità.

In realtà innumerevoli studi ed analisi effettuate hanno smentito ampiamente la presunta tossicità del clinto. Io stesso ne ho fatto analizzare 4 bottiglie di produttori diversi (tra gli intervistati), all’Istituto Sperimentale di Enologia di Conegliano e i risultati sono stati in tutti i 4 casi positivi e nella norma. Si trattava di “vino” sotto ogni punto di vista. Del resto il Clinto di oggi non è come quello di 80 anni fa. E’ anche una questione di tecniche enologiche.

Aneddoto

Ho trovato questa interessante citazione, presa da un saggio di storia locale del pedemontano veneto, che la dice lunga sul rapporto di amore-odio che intercorreva in passato, tra i contadini poveri e la loro unica bevanda alcolica consentita.

“Vinceremo la guerra e i contadini non moriranno più di ulcera gastrica per colpa del clinto, e non si ammaleranno più di pellagra a forza di mangiare polenta al mattino, mezzogiorno e sera. Finalmente potremo mangiare anche noi tutti i santi giorni, e bere il vino bianco, che ci è sempre stato negato perchè al contadino è riservato il clinto, quello che con il suo colore rosso carico (quasi nero) proietta ombra sul tavolo, dove si posa il bicchiere…”

Questa citazione mi ha fatto venire in mente un aneddoto che mi raccontò mio padre, nel dopoguerra Sindaco di Farra di Soligo, paese in quegli anni ad economia esclusivamente rurale, con piccolissime aziende contadine e miseria. Si produceva a Farra moltissimo Clinto, e un anno la produzione fu così abbondante, da rendere impossibile vendere tutta l’uva, che giocoforza fu trasformata direttamente in vino, che i contadini non riuscivano a vendere nemmeno a prezzi stracciati.

Così chiesero al Sindaco il permesso di esporre il tralcio di vite (la frasca) sopra la porta di casa, e di vendere il vino in mescita diretta agli avventori che volevano passare qualche ora a giocare alle carte, applicando una tariffa di consumo orario (!).
In seguito alle rimostranze degli osti, che rischiavano di perdere parte dei clienti, mio padre propose ai contendenti una salomonica decisione: i contadini potevano continuare a mescere il vino in casa, con la tariffa oraria, ma non era concesso agli ospiti di sedersi per “battere il fante”, privilegio riservato solo alle osterie.

Era così grande il disagio economico, in quegli anni, che a volte ai bambini per intingerci il pane della colazione, veniva data una scodella di clinto tagliato con l’acqua, al posto del latte, che veniva più facilmente venduto. Così, qualche bambino arrivava a scuola la mattina, con i caratteristici “baffi da clinto”, ai lati della bocca.

In conclusione

  1. Se è vero che, nel corso del secolo scorso, la diffusione in molti paesi degli ibridi americani metteva forse a rischio le sorti delle specie autoctone -e probabilmente anche la stessa sopravvivenza di alcuni vitigni nostrani più sensibili alle diverse malattie- è altrettanto vero che ormai, con l’enorme attenzione che in tutti i paesi a vocazione vitivinicola c’è per la difesa dei cosiddetti vini “autoctoni” (con denominazione d’origine o geografica protetta) e con la crescita in generale della qualità dei vini, il rischio sia da ritenersi superato.
    Credo non ci sia niente da temere rispetto alla presenza in alcune circoscritte aree del paese (o in presidi definiti) di produzioni limitate di Clinto e Clinton (e anche Fragolino, Noah e Bacò), nel rispetto delle tradizioni e dei requisiti di igiene qualità; senza per questo incorrere in ridicole sanzioni da parte dei Nuclei repressione frodi di Carabinieri o della Guardia di Finanza.
    Se poi la condizione dovesse essere quella di evitare per questi “vini maledetti” proibiti soprattutto (?) in Italia, di attribuire la qualifica di vino, per non creare impatto problematico su norme e regolamenti europei, consentendo quella alternativa di “bevanda a base di succo fermentato (o alcolico) di uva Clinto, Clinton, Bacò ecc”, credo che questa sarebbe comunque una soluzione migliore di quella del proibizionismo e della persecuzione preconcetta.
  2. Dallo studio dei dati storici e dalle analisi emerge la non veridicità della teoria secondo la quale i vini derivati da ibridi conterrebbero necessariamente sostanze tossiche (come il metanolo o gli acidi cianidrici). Tra l’altro, con l’evoluzione dell’enologia, delle conoscenze, degli strumenti, sia i problemi di acidità o di tannicità in eccesso, che quelli legati ad altre caratteristiche anomale o a specifici difetti del vino, risultano facilmente superati grazie ad accorgimenti tecnici. Ciò non implica che si debbano per forza far rientrare grazie alla tecnica (e per mero rispetto dei regolamenti) le caratteristiche del Clinto all’interno degli standard più diffusi. Si tratta di un prodotto storico e come tale va trattato rispettandone le specificità.
    In fondo il Clinto in Italia ha più anni dell’Amarone ed anche del Brunello di Montalcino!
  3. Anche per quanto riguarda la “produzione diretta”, che un tempo era la norma, ed ora viene vista come la peste, ormai non si pone più il problema, perché la stragrande maggioranza dei vitigni di Clinto sopravvissuti sono innestati su piede come tutti gli altri vitigni autoctoni. La stessa cosa vale per altri ibridi, con l’eccezione del Bacò, che eventualmente potrebbe restare tale, vista la esigua produzione residua.
  4. Occorre anche tenere presente l’importanza di un vino, pardon di una bevanda… che non richiede eccessivi trattamenti e addirittura assimilabile tra i vini biologici e in qualche caso addirittura biodinamici, in virtù delle già descritte caratteristiche della vite; ciò anche alla luce della evoluzione dei mercati verso vitigni resistenti che non richiedano eccessivo ricorso ai prodotti chimici.
  5. Tra gli argomenti a difesa, c’è da aggiungere quello relativo alla straordinaria grappa che si può ricavare dalla vinaccia di Clinto. Per consentirci di continuare a godere, anche in futuro, della migliore tra le grappe possibili, vale sicuramente la pena di dare qualche ragione in più ai coltivatori, per mantenere le proprie viti di Clinto, sapendo che possono ricavarne sia il “succo fermentato” che la preziosa vinaccia da vendere ancora umida a caro prezzo, a qualche distillatore illuminato.
  6. Forse non tutti sanno che, grazie a deroghe regolamentari e interpretazioni delle normative, in Austria (ma anche in Germania, Francia, Svizzera, Ungheria) vengono tuttora prodotti e commercializzati da cantine ufficiali, ottimi “vini” a base di uva Clinton e di altri ibridi produttori diretti, senza incorrere in sanzioni di alcun genere. Il mercato è naturalmente locale, e le quantità prodotte sono limitate, ma pur sempre 50 o 100 volte superiori a quelle italiane…
  7. Considerazione finale, anche alla luce del riconoscimento come patrimonio culturale Unesco, delle colline del Prosecco Superiore: il Clinto non è semplicemente un vino ma soprattutto un prodotto culturale/storico che ha influenzato nel bene e nel male e per oltre 150 anni, la vita delle persone del territorio dell’Alta Marca. Esso può a pieno titolo essere compreso tra i patrimoni culturali da preservare e proteggere, in quanto produzione tipica locale (PTL) di un territorio, in particolare quello del Quartier del Piave, risultando in questo modo un ulteriore elemento di attrazione.

Il Sistema Prosecco Superiore non deve temerne ripercussioni negative; come del resto non c’è niente di male (anzi) nel promuovere la Soppressa d’Alta Marca, la polenta bianca, lo Spiedo o la Casatella… Si tratta in tutti i casi di componenti della tradizione gastronomica locale che aggiungono valore, a quello generato dal vino, contribuendo ulteriormente allo sviluppo dell’incoming turistico verso il territorio patrimonio dell’Umanità.

Graziano Lazzarotto